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Covid: alterazioni del cervello a distanza di un anno

Il Covid ha effetti sul cervello anche a distanza di un anno dalla malattia. Lo conferma uno studio dell’Università di Milano condotto su sette pazienti. Ecco cosa dice.

Il Covid ha effetti sul cervello anche a distanza di un anno dalla malattia. Lo conferma uno studio dell’Università di Milano condotto su sette pazienti. Ecco cosa dice.

Gli effetti del Covid si ripercuotono sul cervello anche a distanza di un anno. Lo conferma uno studio italiano condotto su 7 pazienti con disturbi cognitivi, spiegando cosa accade.

Gli effetti del Covid sulla memoria

Uno studio, coordinato dall’Università degli studi Milano e condotto in collaborazione con il Centro Aldo Ravelli della Statale, l’Asst Santi Paolo e Carlo e l’Irccs Auxologico, ha analizzato le conseguenze cognitive (memoria, attenzione, linguaggio), il funzionamento del cervello e, in un caso, anche la deposizione di molecole tossiche nel cervello, in un gruppo selezionato di pazienti colpiti dal Covid.

Secondo la ricerca, alterazioni del metabolismo cerebrale e possibile accumulo di molecole tossiche si ripercuotono sulla memoria anche a distanza di un anno. I pazienti selezionati dai ricercatori (7 in tutto), infatti, lamentavano ancora disturbi e stanchezza mentale a distanza di un anno dalla malattia.

Secondo il gruppo di ricerca, guidato dal neurologo Alberto Priori, la nebbia mentale e i disturbi di memoria e concentrazione, che persistono per mesi dopo l’infezione da Covid-19, potrebbero essere legati in alcuni casi ad alterazioni del metabolismo del cervello e all’accumulo di molecole tossiche per i neuroni.

Lo studio

Come detto, i ricercatori hanno selezionato sette pazienti ricoverati per Covid che a distanza di un anno dalle dimissioni presentavano ancora disturbi cognitivi rilevati da specifici test neuropsicologici, e li hanno esaminati con la metodica di tomografia a emissione di positroni (Pet), usando come marcatore il glucosio legato a un isotopo radioattivo, per valutare l’attività metabolica di specifiche aree del cervello o del tronco encefalico.

Dai risultati, pubblicati su Journal of Neurology, è emerso che tutti i pazienti presentavano test neurologici alterati. In particolare, quattro pazienti presentavano disturbi cognitivi oggettivati da test neuropsicologici ma PET normali, mentre tre pazienti avevano disturbi cognitivi con test neuropsicologici e PET alterati. In tre dei quattro pazienti con persistenti alterazioni cognitive, la PET ha mostrato un ridotto funzionamento delle aree temporali (sede della funzione della memoria), del tronco encefalico (sede di alcuni circuiti che regolano l’attenzione e l’equilibrio) e delle aree prefrontali (che regolano l’energia mentale, la motivazione e, in parte, il comportamento).

Su uno dei pazienti che presentava un disturbo cognitivo più grave è stata anche eseguita una Pet speciale che permette di visualizzare la deposizione di amiloide nel cervello.

“L’amiloide è una proteina che quando si accumula nei neuroni ne determina l’invecchiamento precoce e la degenerazione e che è implicata nella malattia di Alzheimer”, ha spiegato Luca Tagliabue, direttore della divisione di Medicina Nucleare e Radiodiagnostica dell’Asst Santi Paolo e Carlo. “Ebbene nel paziente esaminato la Pet ha rilevato un abnorme accumulo di amiloide nel cervello e particolarmente nei lobi frontali e nella corteccia cingolata, legate a funzioni cognitive complesse e alle emozioni”, ha proseguito.

Lo studio conclude quindi che in poco meno della metà dei pazienti con disturbi di memoria e concentrazione a un anno dal Covid possono esserci alterazioni funzionali delle aree cerebrali temporali, frontali e del tronco dell’encefalo, mentre negli altri casi i disturbi cognitivi “non hanno un riscontro funzionale sul cervello, ma possono derivare da modificazioni di tipo esclusivamente psicologico analoghe al disturbo post-traumatico da stress”, ha chiarito Roberta Ferrucci, docente di psicobiologia dell’Università Statale Milano.

L’aumento di amiloide in un paziente potrebbe essere in relazione all’infezione oppure all’innesco da parte dell’infezione della cascata neurodegenerativa. Questo dato andrà valutato da futuri studi, per capire se l’infezione da SarsCoV-2 possa determinare in futuro un aumentato rischio di malattie neurodegenerative.

“Questo studio offre un ventaglio di ipotesi interpretative del danno post-Covid e pone le basi per una valutazione diversificata del paziente nel lungo termine”, ha detto Vincenzo Silani, già docente di Neurologia della Statale e direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell’Irccs Auxologico. “I processi neurodegenerativi potrebbero anche innestarsi post-infezione in casi selezionati secondo diverse vie patogenetiche e questa, ovviamente, è la domanda principale che ci poniamo: possiamo attenderci nel futuro patologie neurodegenerative?”, ha concluso.

fonte immagine: https://pixabay.com/it/illustrations/cellule-nervose-neuroni-2213009/

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